(a cura di Andrea Gropplero - materiali Cinecittario: Archivio Luce)
La Dolce Vita, il capolavoro di Federico Fellini, è uno dei film più importanti della storia del cinema, quindi non ci soffermeremo nel racconto della trama. Se non l’avete visto, dovete farlo, è un imperativo. Ci soffermeremo invece sul rapporto tra Fellini, l’antica Roma e la cucina.
Stampa itinerarioSarebbe più giusto dire che Fellini è Roma. Era nato a Rimini però la scelta di Roma e di Cinecittà (gli studios dove ha vissuto e realizzato gran parte dei suoi film) come casa dell’anima è una svolta della piena maturità del Maestro. Il racconto della Roma degli anni Sessanta ne La Dolce Vita è in fondo il racconto della vita di una città imperiale o, meglio, della capitale dell’impero nella sua piena decadenza. Tutte le scene di feste e locali ricordano i banchetti dell’antica Roma, libagioni a volontà e l’indolenza che aleggia su tutto.
In Satyricon, film del 1969, Fellini racconta la storia di due giovani senza arte né parte, Ascito ed Encolpio, in una Roma imperiale decadente, in cui si affacciano sulla scena classi fino ad allora subalterne come gli arricchiti, i liberti e i cavalieri. La lunga sequenza del banchetto di Trimalcione ci rivela molto sia della Roma Imperiale che della Roma moderna, ma soprattutto è un racconto poetico e visionario della nascita della cucina italiana.
Fellini quando racconta Roma, sia che realizzi La Dolce Vita, Satyricon, o Roma, crea un continuum atemporale in cui la metropolitana di Roma e le catacombe sono la stessa cosa del viavai di via Veneto. Tutte le strade portano a Roma e Fellini si direbbe che di Roma non butta via niente, del resto Roma stessa del cibo non butta nulla, forse per questo è la patria del quinto quarto.
Nella sequenza del banchetto di Trimalcione in Fellini Satyricon arriva un enorme maiale arrostito intero, Trimalcione si infuria col cuoco perché non ha sventrato il maiale e addirittura lo vuole giustiziare. I commensali insorgono e invocano la clemenza di Trimalcione, che con un placido gesto invita il cuoco a sventrare l’animale davanti ai presenti. Sventrato il maiale arrosto, fuoriescono salsicce, fegato, trippa, volatili, prosciutti, già cucinati ed inseriti nel maiale con una sorta di trompe l’oeil, nel giubilo dei banchettanti. Nella scena successiva entrerà un vitello, che immaginiamo anch’esso ripieno e richiuso, che con un gesto imperioso del cuoco verrà teatralmente sventrato ad offrire nuove prelibatezze. Ecco: in questo momento, in questo gesto che disvela, è racchiuso il segreto della cucina romana dalle origini ai giorni nostri.
Marcus Gavius Apicius (Marco Gavio Apicio) è scrittore, gastronomo e cuoco vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.; è lui che ci ha tramandato la gran parte delle conoscenze che abbiamo della cucina dell’antica Roma. Esteta, amante dell’eleganza e dello sfarzo, quella che ci racconta attraverso il suo libro De Re Coquinaria è la cucina delle classi agiate del periodo imperiale.
Roma capitale dell’impero era un crocevia di persone di etnie, di razze, di usi e costumi provenienti da tutto il mondo conosciuto. Questa varietà naturalmente si rifletteva nella cucina del tempo. Sulle tavole dei potenti romani arrivavano piatti esotici come la gru, lo struzzo, le lingue di fenicottero, anche se la base vera della cucina romana era fatta di farro, carne di maiale, di vitello e di manzo, pesce, crostacei e formaggi. Le prelibatezze più diffuse sia nelle classi agiate che nella plebe erano le interiora e in sostanza il quinto quarto, come piedini, naso e orecchie di maiale, la coda vaccina, la trippa il fegato di tutti gli animali, la coratella. Tutti i piatti – carne, pesce, farro, verdure – venivano conditi a base di una salsa ottenuta dal quinto quarto del pesce: le interiora, (profumate con ginepro, mirto, alloro, rosmarino, aglio, finocchietto, aceto, olio, sale) che si chiamava garum.
Quella che segue è la ricetta del garum di Apicio.
“Si prendono pesci grossi come salmoni, anguille, sardine: quindi a tali pesci si uniscono sale, erbe aromatiche secche come l’aneto, la menta, il levistico, il puleggio, il serpillo. Di queste erbe si deponga un primo strato sul fondo di un grande vaso. Si faccia quindi un altro strato di pesci interi se piccoli, a pezzi se grossi. Si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l’operazione dei tre strati fino a quando il vaso sia colmo. Si chiuda il vaso e si lasci macerare per sette giorni. Poi per altri venti giorni si rimesti il miscuglio. Allora si raccolga il liquido che cola”.
Questa ricetta ricorda alcune antiche preparazioni per conservare il pesce che tutt’oggi sono molto diffuse in alcuni paesi sudamericani, come Perù e Colombia: il ceviche, anche se nel sapore è certamente più simile a un ingrediente molto diffuso da tempo immemore in tutta l’Asia: la salsa di pesce. In Italia, a Cetara, un paese della Costiera amalfitana, tutt’oggi viene prodotta la colatura di alici, che nella preparazione è molto simile al garum. Si tratta infatti di alici disposte su lunghe reti e messe sotto sale, il cui liquido viene raccolto e imbottigliato.
Quella di Apicio è comunque una ricetta ricca, che riguarda il modo di fare il garum delle classi dominanti. Sicuramente la ricetta più diffusa a livello popolare era a base di interiora di pesce, alici, aglio, aceto, olio, alloro, rosmarino e diverse piante aromatiche diffuse all’epoca e lasciate a macerare per sette giorni e poi altri venti prima di prelevarne il liquame e condire i piatti. Per chi volesse oggi ottenere un condimento simile al garum, lo può fare unendo colatura di alici, pasta di acciughe, salsa di pesce, aglio, olio evo, aceto, alloro, spezie e piante aromatiche a piacere.
Possiamo dire che la cucina romana ha due radici fondamentali: quella imperiale di cui abbiamo fino a qui parlato, che è la radice del quinto quarto, e quella giudaico romana. La seconda unisce due influenze fondamentali: quella iberica e quella mediterranea. La comunità ebraica è presente a Roma fin dal II secolo a.C. e questo fa di lei la più antica d’Europa. Nel 1592 in seguito all’editto di espulsione degli ebrei dalla Spagna per volontà di Ferdinando II molti di loro trovarono rifugio nella comunità romana, portando in dote usi e tradizioni iberiche, tra cui la cucina del pesce e i fritti in pastella. Alcuni dei piatti più noti della cucina romana contemporanea hanno questa radice: i carciofi alla giudia, i filetti di baccalà fritti, i fiori di zucca ripieni di mozzarella e alici.
Alla cucina giudaico romanesca è attribuibile anche il brodetto di pesce e il tortino di alici e indivia, piatti questi ultimi nati da una necessità politica, in seguito al divieto del governo papalino del 1611, all’uso da parte degli ebrei di cibi lussuosi. Già nel 1555 Papa Paolo IV, confinò gli ebrei nel ghetto, vicino al porto di ripa grande sul Tevere e soprattutto nei pressi della Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, dove venivano accatastati gli scarti dei pesci del vicino mercato del pesce e usati dalle donne del ghetto per realizzare manicaretti suntuosi e poverissimi al tempo stesso perché ottenuti con ingredienti di risulta.
La cucina romana ha comunque prodotto piatti straordinari anche fuori da queste due influenze particolari, in molti casi utilizzando il quinto quarto. Gli esempi più interessanti della cucina romana recente sono: la coda alla vaccinara, i rigatoni con la pajata, la trippa alla romana con la mentuccia e il pecorino, il cacio e pepe, l’amatriciana e il più recente di tutti, nato sul finire della seconda guerra mondiale per compiacere un soldato americano abituato a fare colazione con uova e bacon: la carbonara. La ricetta che però vogliamo suggerire, meno conosciuta, stagionale e gustosissima è la vignarola, un piatto principe della cucina popolare e contadina romana.
Si tratta di un piatto stagionale, di solito viene cucinato tra la Pasqua e il Primo Maggio, la festa dei lavoratori. Questo è infatti il periodo in cui si cimano le vigne e queste tenere cime vengono unite in padella ai carciofi, alle fave fresche, ai piselli e alla lattuga dopo avere abbrustolito delle listarelle di guanciale e finite con del pecorino, possono essere gustate come secondo piatto oppure ottime per condire la pasta, soprattutto i tonnarelli.
INGREDIENTI
PREPARAZIONE
Ponete le listarelle di guanciale – della misura di circa 1 cm di larghezza e 3 cm di lunghezza – in un’ampia padella e fate soffriggere; quando saranno abbrustolite, unite dapprima i carciofi tagliati sottili e le fave fresche sgusciate, cuocete nel grasso per circa 5 minuti e aggiungete i piselli e le cime di vite a cuocere per altri 7 minuti sfumando con mezzo bicchiere di vino bianco; aggiungete la lattuga tagliata a listarelle sottili cuocete altri 3 minuti; unite il pecorino e mantecate con un filo di olio evo.
Per chi volesse farsi un trailer fai da te su La Dolce Vita e Fellini Satyricon, proponiamo questo gioco, dando le indicazioni di entrata e di uscita dal film. Basterà usare un qualunque programma di montaggio ed inserire sulla time-line i dati del film che vi proponiamo di seguito ed in pochi minuti il gioco sarà fatto.