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I 70 anni di Roberto Benigni che portò Arezzo agli Oscar

27-10-2022 Tempo di lettura: 3 minuti

Oggi compie gli anni uno degli attori italiani più noti al grande pubblico internazionale: Roberto Benigni. Nato a Castiglion Fiorentino settant’anni fa è conosciuto per i suoi monologhi, per la sua ironia dissacrante e naturalmente per le sue interpretazioni e regie cinematografiche.

Celebre il sodalizio con il compianto Massimo Troisi, con il quale ha firmato una delle pagine più note all’immaginario cinematografico italiano: quel Non ci resta che piangere (1984) da lui diretto e interpretato che, oltre alle tante battute indimenticabili, ha lasciato alla storia del nostro cinema la memoria di alcuni luoghi, l’albero secolare nei pressi del lago di Bracciano, la Frittole del “Mille e quattrocento quasi Mille e cinque", ricostruita a Cinecittà, la Chiesa di Santa Maria in Celsano, nel borgo di Santa Maria di Galeria (Roma), dove Troisi si innamora di una giovanissima Amanda Sandrelli, la selva di Paliano, dove si trova l’improbabile casello protagonista della famosissima scena: “Alt! Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!", il Parco archeologico di Vulci, dove i due protagonisti cercheranno di fare colpo nientemeno che su Leonardo da Vinci, il Parco naturale della Maremma a inscenare Palos, il luogo di partenza di Cristoforo Colombo per le Americhe.

Tra i tanti film, Benigni ha interpretato anche Leopoldo Pisanello, un anonimo cittadino, poco considerato da familiari, colleghi e amici, colto da improvvisa e inspiegabile popolarità in To Rome with Love (2012), l’omaggio di Woody Allen alla città eterna, mentre una delle sue interpretazioni più recenti è quella di Geppetto nel pluripremiato Pinocchio di Matteo Garrone (2019), girato in scenari favolistici tra Toscana, Puglia e Lazio.

Venti anni prima, Benigni aveva ottenuto il riconoscimento internazionale con i tre Oscar per La vita è bella (1997) – miglior film straniero, miglior attore protagonista e miglior colonna sonora a Nicola Piovani – sua personalissima interpretazione della tragedia dell’olocausto, in cui interpreta, con tenerezza e la sua consueta ironia, un uomo deportato in un campo di concentramento e i suoi tentativi di sopravvivere e salvaguardare dall’orrore l’innocenza del figlioletto Giosuè. Il film fu girato principalmente ad Arezzo e in provincia (Cortona e Castiglion Fiorentino) e negli studi di Papigno, in Umbria, dove fu ricostruito il campo di concentramento.

(Monica Sardelli)