(a cura di Andrea Gropplero - materiali Cinecittario: Archivio Luce)
In Toscana sono stati girati centinaia di film e decine di capolavori, tra questi sicuramente Amici miei di Mario Monicelli del 1975. È uno dei film più amati dal pubblico italiano, un amore che dura da 45 anni senza cedimenti generazionali, una colonna e un caposaldo della commedia all’Italiana.
Stampa itinerarioLa Toscana è un set naturale dai mille paesaggi differenti che vive da sempre un magnifico incantesimo: la bellezza, il cibo e i vini fanno sembrare qualunque compagnia, la migliore. Amici miei è un film originariamente scritto e pensato da Pietro Germi – che non riuscì ad esserne il regista per via della malattia che lo portò ad una prematura scomparsa nel 1974 – e mirabilmente messo in scena dal grande Mario Monicelli, che manterrà nel film la scritta “Un film di Pietro Germi”, prima del cartello con il suo nome di regista. Il titolo, sembra riferirsi proprio all’addio al cinema di Pietro Germi che scriveva, poco prima di morire: “amici miei, ci vedremo, io me ne vado”. La buona compagnia in Amici miei è la valvola di sfogo di cinque amici fiorentini cinquantenni che attraverso gli scherzi e le zingarate evadono dal loro quotidiano. Un nobile decaduto, un giornalista, il proprietario di un bar, un mediocre architetto e un brillante primario ospedaliero, non perdono occasione per trovarsi e vagare senza meta (zingarare) nel Chianti fiorentino, alla ricerca di scherzi da fare, di piatti succulenti e inebrianti vini, con la speranza di assaggiare un po’ di amore, di facile sesso e di spensierata felicità.
Il film ebbe un grande successo di pubblico e incassi e vinse due David di Donatello per la regia di Mario Monicelli e per il protagonista Ugo Tognazzi. La Toscana è terra di molti centri, infiniti paesaggi e itinerari culturali, naturalistici, enogastronomici. Forse è questa la ragione per cui è divenuta set di molti importanti film, girati tra Firenze, Siena, Pisa, Livorno, Arezzo, Prato, Lucca, e soprattutto nelle sue campagne, dal Chiantishire alle Crete Senesi. È una terra che sembra fatta per “zingarare”, grazie anche alle strade di crinale realizzate da Lorenzo de’ Medici, che passando per l'appunto sul crinale dei dossi e non a valle (come le strade progettate prima di lui) consentono ai viandanti di godere di panorami mozzafiato.
La patria del Rinascimento, che ha dato i natali al genio Leonardo Da Vinci, al grande artista Michelangelo Buonarroti, all’inventore della lingua italiana Dante Alighieri, ha generato anche il burattino più famoso del mondo: Pinocchio, grazie alla penna di un altro grande narratore: Carlo Collodi. Sono diverse le versioni cinematografiche di questo grande libro, le ultime in ordine temporale sono quelle di Roberto Benigni e Matteo Garrone. Pinocchio è per molti versi presente, come un archetipo nella nostra cultura ed anche in diversi film che non sono tratti dal libro di Collodi. Tra questi Io ballo da sola (1996) di Bernardo Bertolucci, girato nelle colline attorno a Siena, più precisamente nel Casale Podernuovi di San Regolo, una frazione di Gaiole in Chianti e nella Villa Bianchi Bandinelli a Castelnuovo Berardenga.
Cosa c’entra Io ballo da sola con Pinocchio? Certo si può dire che la storia racconta il viaggio di una ragazza americana (Liv Tyler) che arriva a casa di amici in Toscana per farsi fare un ritratto dall’amico scultore della madre morta. In verità è la storia di Pinocchio ripercorsa al contrario e al femminile, in cui la bambina ritrova se stessa solo vedendosi scolpita nel legno ed in quel momento scopre anche che lo scultore è suo padre biologico. Curioso che nella prima versione del Pinocchio di Garrone, interrotta in fase di preparazione prima della realizzazione di Dogman, la scelta dell’interprete di Pinocchio era caduta su una bambina (Alida Baldari Calabria), che nella versione finale del 2019 interpreta la fata turchina bambina. Forse anche per Garrone Pinocchio ha un lato enigmatico e femminile, come la Gioconda, il suo sorriso e la Toscana che di quel quadro è lo sfondo.
Lo sfondo dietro la Gioconda è l’Etruria, la terra degli Etruschi. Dalla storia di questo popolo discende la cucina toscana. Tutto quello che ci è dato sapere sugli Etruschi ci arriva da fonti dell’antica Roma e dagli scavi archeologici, che per quanto concerne l’alimentazione di questo popolo, nonostante l’uso delle nuove tecnologie applicate all’archeologia, non è di facile ricostruzione. Si sa che gli Etruschi erano un popolo di agricoltori in una terra molto fertile, di cacciatori, allevatori e pescatori. Si sa che cereali e legumi erano alla base della dieta quotidiana soprattutto delle classi più povere e da lì derivano la gran parte delle zuppe e minestre di verdura, ancora presenti nella dieta toscana, come la gran parte dei minestroni di verdura o zuppe a base di legumi (principalmente fagioli) e farro. Per quanto questi stessi ingredienti siano presenti anche nella ribollita, questo piatto si fa risalire ad epoche più recenti, tra il medioevo e il rinascimento.
Proprio in questo periodo e proprio in Toscana le posate divengono di uso comune e Caterina de’ Medici, divenuta regina di Francia, le esporterà in quel paese in cui sulle tavole dei nobili si mangiava con le mani, usando le tre dita: pollice, indice e medio. Dire posate, non è cosa semplice: In principio nacque il coltello, col fodero che veniva portato alla cintura dagli uomini e quindi “posato” sulla tavola e usato per il cibo, a cui nel tempo si aggiunsero il cucchiaio (la posata più antica) il cui nome deriva da cochlea, conchiglia. Il cucchiaio veniva usato dalle classi più povere che si nutrivano prevalentemente di minestre e piatti brodosi. È in questo periodo tra il X e XI secolo che vengono creati, con la nascita del pane in Toscana, piatti come la ribollita: un piatto a base di cavolo nero, farro, fagioli, verza e bietola che veniva cucinato normalmente per il venerdì magro in grande quantità e poi ribollito nuovamente nei giorni successivi, con l’aggiunta degli avanzi alimentari delle altre pietanze e soprattutto del pane raffermo.
I bizantini usavano già delle forchette e dei cucchiai che però si diffusero su qualche tavola solo nel Medioevo, molto osteggiati dalla Chiesa, in particolar modo la forchetta considerata strumento di mollezza e simbolo del demonio. Passato il buio Medioevo, nel Rinascimento le posate sono sulle tavole dei fiorentini, insieme a nuovi piatti e profumi. In questo periodo Lorenzo il Magnifico decide per la produzione massiccia di zafferano nelle campagne di San Gimignano, i carciofi, viene coltivato il pomodoro, qualcuno dice già a scopo alimentare anche se le prime ricette che prevedono il pomodoro nella cucina italiana sono attribuibili ad Antonio Latini (1642-1696) e pubblicate nel famoso testo Lo scalco alla moderna.
Nelle botteghe dei pittori fiorentini si preparano i colori con l’uso di minerali e alimenti, come l’olio, l’uovo, lo zafferano. Ma il grande contributo alla cucina toscana, italiana e soprattutto francese, verrà dato da Caterina de’ Medici, Regina consorte di Francia in qualità di moglie di Enrico II d’Orleans e madre di ben tre Re di Francia Francesco II, Carlo IX ed Enrico III.
Caterina de Medici sta alla cucina francese quanto Dante Alighieri sta alla cucina italiana. Per il principiatore della lingua italiana il cibo non usato con moderazione era fonte di guai e peccato capitale. Nella Divina Commedia finire nel girone dei golosi rappresenta, per Dante, la colpa meno dignitosa. Nel suo Inferno vi sono tre belve a guardia della porta d’entrata: vi è la lonza che rappresenta la lussuria, il leone, la superbia, e la lupa, su cui Dante si sofferma a lungo, che rappresenta la cupidigia e l’avarizia, la più pericolosa delle tre. Dante indica nella cupidigia la fame per i beni terreni, i beni materiali, non spirituali, tra cui il cibo trangugiato senza freno. Infatti poco dopo affiderà al Veltro, un essere enigmatico, l’uccisione della lupa: “non ciberà terra né peltro, / ma sapienza, amore e virtute” (canto I, 103 – 105).
Caterina de’ Medici nata a Firenze nel 1519 e divenuta regina sposa di Enrico II nel 1547, trasferitasi a Parigi non amava la cucina francese dell’epoca e chiamò a corte cuochi toscani e siciliani a cui chiedeva di cucinare le ricette dei piatti più amati ed impose a corte l’uso delle posate ai commensali francesi che all’epoca usavano ancora le mani per portare il cibo alla bocca.
Introdusse nella cucina francese dei piatti che costituiscono la vera grammatica alla base della cucina francese tra questi: lo stiracchio in francese miroton de beuf, il papero al melarancio (canard à l’orange), pezzole della nonna in salsa colla (crêpes à la besciamelle) la salsa colla (besciammelle), la crema pasticcera, lo zabaione e la carabaccia o zuppa di cipolle o soupe à l’oignon.
Tra i suoi piatti preferiti: i carciofi che faceva arrivare da Firenze in gran quantità e li amava cotti nel vino, la zuppa di cipolle e il cibreo, di queste tre cose ne fece diverse indigestioni e del cibreo quasi ci morì per averne mangiato troppo. Per Dante, Caterina sarebbe finita certamente nel girone dei golosi, ma senza di lei l’Italia, la Francia ed il mondo intero avrebbero perso molto gusto.
Il cibreo è un piatto a base di rigaglie di pollo (interiora, fegato, zampe, cresta, testicoli, cuore). Il nome secondo l’Accademia della Crusca deriva da cirbus: interiora, anche se per altri ha la stessa derivazione di rigaglie: cibo da re e regale. La ricetta che vi proponiamo è quella dell’Artusi.
INGREDIENTI
PREPARAZIONE
Il cibreo è un intingolo semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato e ai convalescenti. Prendete fegatini (levando loro la vescichetta del fiele), creste e fagioli di pollo; le creste spellatele con acqua bollente, tagliatele in due o tre pezzi e i fegatini in due. Mettete al fuoco, con burro in proporzione, prima le creste, poi i fegatini e per ultimo i fagioli e condite con sale e pepe, poi brodo se occorre per tirare queste cose a cottura.
A tenore della quantità, ponete in un pentolino un rosso o due d'uova con un cucchiaino, o mezzo soltanto, di farina, agro di limone e brodo bollente frullando onde l'uovo non impazzisca. Versate questa salsa nelle rigaglie quando saranno cotte, fate bollire alquanto ed aggiungete altro brodo, se fa d'uopo, per renderla più sciolta, e servitelo. Per tre o quattro creste, altrettanti fegatini e sei o sette fagioli, porzione sufficiente a una sola persona, bastano un rosso d'uovo, mezzo cucchiaino di farina e mezzo limone.
I granelli, lessati e tagliati a filetti, riescono buoni anch'essi cucinati in questa maniera.
Per chi volesse farsi un trailer fai da te sulla cucina toscana in Amici miei proponiamo questo gioco, dando le indicazioni di entrata e di uscita dai film. Basterà usare un qualunque programma di montaggio ed inserire sulla time-line i dati dei film che vi proponiamo di seguito ed in pochi minuti il gioco sarà fatto.